Per la normativa comunitaria e per quella nazionale uno fra i primi compiti e obblighi di un’attività che opera nel settore alimentare è quello di garantire l’immissione sul mercato di alimenti sicuri e che non costituiscano un pericolo per i consumatori finali. Per raggiungere questo scopo ci sono numerosi aspetti che l’Operatore del Settore Alimentare (OSA) deve tenere sotto controllo e tanti altri aspetti normativi a cui deve sottostare.Tra gli impegni a cui l’OSA non può sottrarsi c’è, infatti, anche quello della corretta gestione dei rifiuti prodotti dalla propria attività. L’attenzione dell’OSA, infatti, non può fermarsi alla manipolazione degli alimenti ma deve essere una attenzione che, a 360 gradi, gli permette di controllare ogni singolo aspetto. La normativa di settore quindi deve rappresentare - oltre che un obbligo - anche e soprattutto uno strumento da volgere a proprio vantaggio. Se è corretto affermare che l’autocontrollo delle proprie produzioni avviene grazie all’applicazione del sistema dell’HACCP e dei suoi sette principi, dobbiamo affermare, per dovere di cronaca e accuratezza dell’informazione, anche che lo stesso sistema HACCP è incompleto senza le cosiddette “procedure delocalizzate”. Queste sono l’insieme di tutte le procedure necessarie a controllare quegli aspetti che, pur non rivestendo punti di criticità, sono altrettanto importanti ed essenziali per il controllo complessivo dei processi e la buona riuscita delle produzioni. Le Procedure Operative Standard sono appositamente studiate e messe in pratica proprio a questo scopo e la “gestione dei rifiuti” è tra queste. I rifiuti prodotti da un’attività del settore alimentare possono essere numerosi e di origine diversa ma, a prescindere dalla tipologia, è essenziale che non costituiscano un pericolo e che quindi non contaminino le produzioni alimentari. È per questo che le procedure di gestione sono abbastanza dettagliate: i rifiuti devono essere allontanati periodicamente durante la giornata dalle aree di produzione in modo che non si accumulino; devono poi essere correttamente smaltiti; devono essere raccolti in sacchi adeguati e contenuti in appositi bidoni, meglio se in materiale di facile sanificazione, dotati di coperchio e pedale alza coperchio. Gli avanzi di cibi non consumati dagli utenti sono raccolti e smaltiti secondo quanto previsto dal servizio di nettezza urbana come avviene per carta, vetro o plastica. Tra gli scarti provenienti dalle fasi di lavorazione e cottura degli alimenti, però, ce n’è uno che segue una gestione particolare. Parliamo, infatti, dell’olio vegetale residuo dalle fasi di frittura.Olio di fritturaLa frittura rappresenta una cottura veramente molto diffusa nel settore della ristorazione e anche molto apprezzata dai consumatori stessi. E’ una cottura che avviene per conduzione e convenzione in cui il calore è trasmesso attraverso un grasso (solitamente un olio vegetale, più raramente un grasso animale) in cui l’alimento è completamente immerso. L’olio scelto per questo tipo di cottura deve essere il più possibile resistente alle alte temperature e con un punto di fumo elevato anche perché, quando sottoposto a questo tipo di trattamento termico, subisce una complessa serie di trasformazioni chimico-fisiche. La degradazione dell’olio avviene in funzione di alcuni fattori tra cui: la temperatura raggiunta durante la frittura (che non dove superare mai i 175°C); la frequenza e il numero stesso di cicli di frittura effettuati. Le modificazioni che l’olio subisce determinano una variazione delle sue caratteristiche organolettiche, dei valori nutrizioni fino a risultare anche dannose per la salute del consumatore. Ma come capire quando l’olio non è più adatto alla cottura? Alcuni cambiamenti dovuti alla progressiva alterazione dell’olio sono evidenti anche visivamente come l’imbrunimento eccessivo, l’elevata viscosità e la formazione di schiuma, altri cambiamenti di natura chimica invece, presuppongono uno strumento di rilevazione che evidenzi il raggiungimento o meno della soglia limite di alcuni composti. In questo caso ci riferiamo ai composti polari totali (TPS) che rappresentano un ottimo indicatore dello stato di degradazione dell’olio e che soprattutto sono indicati dalla stessa Circolare del Ministero della Salute (n. 11 dell’11/01/1991) come un parametro discriminante per lo stato dell’olio in uso. Un olio che raggiunge la quantità di 25g di TPS in 100 g è un olio che ha terminato la sua vita commerciale in una cucina e che per questo non può più essere utilizzato e deve quindi necessariamente essere cambiato. Da questo momento in poi l’olio diventa quindi un rifiuto e come tale deve essere smaltito. Fortunatamente l’attenzione nei confronti dell’ambiente, della sua tutela e della salute dell’uomo è fortemente in crescita e questo favorisce anche una comprensione maggiore dei motivi per cui è essenziale saper gestire certi rifiuti.Quadro normativoIn Italia, il complesso corpo di norme che regola la disciplina ambientale prende il nome di “Testo Unico Ambientale” (TUA), emanato con il Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152. Una parte di questo Testo è dedicata ai rifiuti e in particolare alla gestione degli oli e grassi vegetali e animali provenienti dalla ristorazione. Il TUA suddivide i rifiuti in: rifiuti urbani e assimilabili a tali e in rifiuti speciali suddividendoli a loro volta in rifiuti speciali pericolosi e in speciali non pericolosi. L’olio vegetale esausto proveniente da attività del settore alimentare viene classificato come rifiuto speciale non pericoloso, per tanto, è indispensabile una gestione specifica in modo da favorire il suo smaltimento ed eventualmente anche il suo riciclo. L’attenzione nei confronti di questa problematica è stata posta già nel 1997 quando l’entrata in vigore del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (Decreto Ronchi) proponeva una gestione distinta degli oli vegetali esausti dalle altre tipologie di oli (lubrificanti, minerali o sintetici, per motori o circuiti idraulici, ecc.) fino a quel momento, invece, gestiti allo stesso modo. A tal proposito il Decreto Ronchi, all’art. 47., prevedeva l’istituzione del Consorzio obbligatorio nazionale di raccolta e trattamento degli oli e dei grassi vegetali e animali esausti. Fu in definitiva con il D.Lgs n. 152/2006 che vennero sanciti i compiti di tale Consorzio, ad oggi conosciuto come CONOE. Il Consorzio si compone di aziende specializzate che svolgono su tutto il territorio, la raccolta, il trasporto, lo stoccaggio, il trattamento e il recupero di questa tipologia di rifiuto; assicurano, nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia di inquinamento, lo smaltimento di oli e grassi dei quali non sia possibile o conveniente la rigenerazione e infine, vi è la promozione dello svolgimento di indagini di mercato e di studi di settore al fine di migliorare le proprie attività. Fino al suo ritiro da parte di azienda specializzata, l’OSA che produce olio vegetale esausto è obbligato a seguire la normativa di settore per lo stoccaggio appropriato del rifiuto e per la sua identificazione.Gestione precisa e vita futuraLe aziende che lo producono come sottoprodotto quindi stoccheranno l’olio esausto in appositi contenitori fino al suo ritiro. I contenitori di raccolta dovranno essere conformi alla normativa di settore e l’OSA dovrà tenere poi nota delle quantità prodotte. E’ bene utilizzare contenitori che siano resistenti, antiurto e con chiusure salde per evitare sversamenti accidentali. Lo stoccaggio poi dovrà avvenire lontano dalle zone di cottura degli alimenti e comunque lontano da fonti di calore. Al momento del ritiro verrà compilato il formulario di identificazione del rifiuto che seguirà quest’ultimo in ogni sua tappa. Il titolare d’azienda che non elimina dai suoi locali in maniera adeguata questo tipo di rifiuto rischia fino a 15000 euro di multe. L’attenzione nei confronti dell’olio vegetale esausto è dovuta principalmente a causa del suo potente potere inquinante e del forte impatto che ha a livello ambientale. Una volta rilasciato nell’ambiente l’olio crea una patina oleosa che si estende con molta facilità e va a limitare la corretta ossigenazione dell’ambiente sottostante. A livello del suolo la patina oleosa rende impermeabili le zolle impedendo il normale scambio di acqua e nutrienti con le zone limitrofe e impoverendo quindi le piante presenti; la contaminazione delle falde acquifere può invece influire negativamente sulla potabilità dell’acqua stessa; infine, se arriva a corsi d’acqua naturali come fiumi, bacini idrici o mare può compromettere la corretta ossigenazione creando forti squilibri nello sviluppo di flora e fauna locale. Il giusto smaltimento dell’olio vegetale esausto crea una nuova vita all’olio stesso. Se infatti il rifiuto è recuperabile può essere rimesso sul mercato trasformato in biodiesel, glicerina per la saponificazione o lubrificanti. Se le aziende del settore alimentare hanno l’obbligo di attenersi a specifiche norme, a livello domestico ancora si fa poco per limitari i danni e arginare il problema. Si stima infatti che circa 800 mila tonnellate di olio vegetale esausto ogni anno vengano versati nelle tubature degli scarichi domestici. Da questo punto di vista c’è ancora ampio margine di miglioramento ed è per questo che è possibile anche a livello domestico seguire una gestione più corretta del rifiuto. Una volta terminata la cottura si fa raffreddare l’olio e si travasa in un contenitore resistente dotato di tappo che permette una chiusura sicura. Questo deve essere conservato al riparo da luci dirette e fonti di calore e una volta colmo può essere consegnato presso uno dei centri di raccolta predisposti dal proprio comune di appartenenza.* Consulente in Sicurezza alimentare e HACCP