di Francesca De Vecchi, Tecnologa alimentare OTALL e divulgatrice scientificaTrasparenza, sicurezza e fiducia. Sono le tre parole che definiscono il successo di una tecnologia che si appresta a diventare un punto di svolta per cittadini e imprese basata su un registro digitale e nata per le transazioni finanziarie in bitcoin, in cui è necessario tracciare e rendere sicuro ogni passaggio. Stiamo parlando della blockchain, cioè la “catena a blocchi”, una sorta di database diffuso, ovvero una base di dati distribuita, condivisa tra più computer – chiamati nodi – connessi alla rete (secondo una definizione del portale blockchain4innovation), che si avvale di un protocollo condiviso dalle parti e i cui dati non sono modificabili in modo retroattivo né eliminabili. Non esiste un controllore delle informazioni, ma ogni nodo è garante della correttezza di quanto inserito. Il registro, pubblico, è crittografato per renderlo inviolabile, quindi sicuro. Dalla definizione ancora si stenta a capire quanto questa nel prossimo futuro influenzerà la vita del cittadino e allora ricorriamo alle dichiarazioni di intenti. Per dirla con l’Europa, in cui 27 Paesi hanno fondato l’European Blockchain Partnership (EBP) per favorire la diffusione di soluzioni basate sulla tecnologia blockchain in diversi campi, dalla pubblica amministrazione al settore privato, “blockchain è una grande opportunità per ripensare i sistemi di informazione, promuovere la fiducia degli utenti e la protezione dei dati personali, contribuire a creare nuove opportunità di business e stabilire nuove aree di leadership, a vantaggio dei cittadini, dei servizi pubblici e delle aziende”.Perché se ne parla anche per l’agroalimentareSecondo molti sarà lo strumento in cui in un futuro neanche troppo lontano potrebbe essere gestita la tracciabilità nel food: informazioni garantite, trasparenza e possibilità di risalire velocemente la catena di informazioni. Parlare di blockchain significa quindi parlare di una serie di valori – fiducia, trasparenza, community – ma anche di una tecnologia il più possibile condivisa, che garantisca l’interoperabilità degli standard adottati, oggi ancora allo studio e vero punto debole di tutto il processo. Ed è per questo che dopo l’adesione al gruppo europeo EPS, anche l’Italia ha dato il via a una serie di azioni interne per definire una strategia nazionale, fondando un gruppo di 30 esperti fra imprese, ricerca e società civile. “Il nostro impegno è rivolto a rendere l’Italia un Paese leader nello sviluppo e nella sperimentazione della blockchain, nel bacino Mediterraneo e in Europa”, ha affermato il ministro Di Maio lo scorso dicembre, sottoscrivendo una dichiarazione sullo sviluppo della blockchain nell’ambito del MED7, i sette Paesi del Sud Europa (Cipro, Francia, Grecia, Malta, Portogallo, Spagna). “Al MISE abbiamo avviato delle sperimentazioni per la tutela del Made in Italy – spiega il ministro – I fondi stanziati con la Legge di Bilancio rafforzeranno queste sperimentazioni che accompagniamo con la creazione di una prima cornice giuridica di riferimento per la blockchain”.Il Made in Italy, appunto…Secondo molti osservatori sarebbe la tecnologia giusta per proteggere uno dei nostri tesori maggiori all’estero. Darebbe finalmente quella protezione sulla sicurezza dell’origine – e dunque un vantaggio competitivo – per combattere i fenomeni di contraffazione (Italian sounding) che varrebbero 100 miliardi di euro per l’export alimentare italiano. Nell’agroalimentare comunque, tanto entusiasmo fa i conti con una situazione ancora incerta e un’applicazione a macchia di leopardo, fra esempi di aziende e grande distribuzione organizzata. Le informazioni in blockchain riguardano per lo più quelle della produzione primaria (dei prodotti agricoli), tutta la fase di trasporto, trasformazione e distribuzione. Ogni nodo della catena ha la responsabilità della veridicità dei dati inseriti. E qui sta un primo punto di riflessione: “Per progetti di tale portata è necessario che ogni attore tragga un beneficio all’interno del proprio business”, riflette Chiara Corbo, dell’Osservatorio Smart AgriFood del Politecnico di Milano e dell’Università degli Studi di Brescia, nato con l’intento di indagare l’impatto che le tecnologie digitali possono avere sulla competitività del comparto (si veda L’intervista). Oggi a guidare la blockchain in Italia sono pochi attori ma di peso. Filippo Renga, direttore dell’Osservatorio AgriFood, riporta i dati raccolti: “Fra i promotori ci sono elementi ‘forti’ della trasformazione (24%) e della distribuzione (38%), attivi anche a livello internazionale”. La digitalizzazione dei processi e della tracciabilità, in particolare, è un fattore che sta già portando vantaggi alle aziende alimentari. Secondo quanto emerso dall’analisi di 76 casi studio di aziende nel mondo e in Italia ha garantito una maggior efficienza ed efficacia, ricorda Renga, presentando lo scenario 4.0 in cui si muove oggi l’agrifood. In merito alle tecnologie abilitanti la tracciabilità digitale, fra le 133 valutate dall’Osservatorio, prevalgono le soluzioni tradizionali (Rfid, QR code, web) e solo un 9% ha scelto di lavorare con la blockchain. Ma i casi sono in aumento, con alcune filiere a fare da apripista. Non c’è dubbio comunque che i produttori di materia prima abbiano un ruolo rilevante, visto che sono coinvolti nella maggior parte dei casi studiati (76%) (Figura 1). Sugli aspetti tecnici si gioca in effetti gran parte della partita. Secondo Alberto Frausin, presidente di GS1 Italy, l’associazione che riunisce 35mila imprese di beni di consumo, c’è la necessità di definire uno standard operativo comune, sottolineando come già il codice a barre con le opportune modifiche – come l’aggiunta di alcuni numeri che identificano direttamente un prodotto – potrebbe rappresentare la soluzione ideale per facilitare a livello nazionale le operazioni di recall in un’ottica di gestione della sicurezza e garantire invece in ambito export l’origine italiana di qualità. L’altra grande opportunità è “riuscire a dare al dato una validità legale, perché non modificabile”, una sorta di identità digitale sulla falsariga di quanto già in uso nelle transazioni bancarie per esempio, dice Marco di Luzio, chief marketing officer Infocert. La blockchain si prefigura quindi come uno strumento digitale potente in grado di offrire quelle garanzie che tanto il sistema della sicurezza alimentare quanto il consumatore devono e vogliono avere a patto di sviluppare le giuste competenze, per creare valore per la filiera e per il consumatore finale.