di Maurizio PedriniInnanzitutto, può aiutarci a conoscere meglio Ailog e gli scopi associativi che la caratterizzano?“Ailog è l’Associazione dei logistici italiani che si occupano di management, non rappresenta una specifica categoria e nemmeno le imprese, che nel nostro Paese si identificano in varie realtà associative, a partire da Assologistica. Rappresentiamo il punto di riferimento dei logistic manager, ovvero di quanti, all’interno delle aziende, piuttosto che nelle università o nel mondo della consulenza, si occupano di logistica e supply chain management. Ailog fa parte del network europeo ELA, di cui sono presidente, che propone un sistema di certificazione delle competenze coerente con i parametri riconosciuti e applicati in Europa. L’outsourcing logistico è assai datato e trova motivazioni di considerevole importanza, ma con quali correttivi ed esigenze che ne hanno modificato il ruolo?“Certamente, è iniziato alla metà degli anni Ottanta, trovando un enorme sviluppo per almeno un decennio, finché ci si è accorti che, così procedendo, si correvano grossi rischi, rinunciando a cogliere preziose opportunità. In buona sostanza, oggi possiamo affermare che, se è vero che le moderne aziende tendono a specializzarsi in pochi processi, è altrettanto vero che oggi è centrale il tema della supply chain, ovvero la gestione della catena di distribuzione. La supply chain è la rete composta da persone, attività, aziende e risorse coinvolte in tutta la filiera di un prodotto: si parte dall'approvvigionamento dei materiali dai vari fornitori e si conclude con la consegna del prodotto al cliente finale. Parliamo perciò di una disciplina estesa che attraversa non solo la mia impresa, ma anche le aziende fornitrici. Ecco perché il controllo e la governance della Supply Chain non poteva e non può essere demandato all’esterno, a differenza dei servizi di movimentazione e trasporto”.Potremmo dunque affermare che si fa di necessità virtù, che serve a sviluppare un’economia di scala?“Direi proprio di sì, perché non tutte le aziende posso acquistare una flotta di camion e chi lo fa deve saturarli, tenendo conto che gli stessi diventano sempre più grossi e sofisticati. Lo stesso dicasi per le navi e le flotte navali, chi si occupa di logistica dei mestieri, deve necessariamente saturare le risorse e investire al meglio. Perciò, cosa può essere terziarizzato? Parecchio. Oltre ai servizi di trasporto e movimentazione interna, anche quelli di packaging e tanti altri ma la leva essenziale per risultare efficienti ed efficaci è quella di mantenere ben saldo il controllo e il governo, imparando a collaborare con clienti e fornitori”.Il nostro sistema logistico è attrezzato per affrontare le tante sfide dell’economia ancora prevalentemente globalizzata, o rappresenta un altro anello debole del nostro Sistema Paese?“La tranquillizzo subito perchè la logistica supply chain italiana e quella europea sono tra le migliori al mondo. Il livello medio del supply chain manager europeo è senz’altro di grande competenza e professionalità. I colleghi americani e dei Paesi Asiatici o della Cina non sono certamente in grado di essere equiparati a noi e di fare tutto ciò che per noi è ordinaria amministrazione, anche perché sono privi delle infrastrutture che noi possediamo da tempo. È bene sottolineare che in Cina, India e Giappone la logistica ha intrapreso una strada ben diversa dalla nostra, si è infatti focalizzata sull’ottimizzazione dei processi produttivi anziché sull’ottimizzazione della filiera. Qui in Europa abbiamo lavorato molto meglio e oggi questa nostra peculiarità è divenuta uno degli asset del sistema economico del vecchio Continente”.Quali sono, a suo avviso, le problematiche maggiori che la logistica italiana deve affrontare?“Oggi la logistica italiana ha problematiche ben più gravi da affrontare, rispetto all’aumento smisurato della bolletta energetica e del costo del gasolio, dovuti sostanzialmente alla ripresa economica dopo la pandemia, legata al rapporto tra domanda e offerta. Per il nostro Paese, oggi, i problemi più grossi sono quelli legati alla contrattualistica e alla mancata flessibilità della manodopera. Sto parlando di due questioni aperte da sempre, tipicamente italiane, rispetto alle quali per anni si è pensato di rispondere attraverso il sistema delle cooperative, che in realtà funzionano poco e male anche perché sono poco patrimonializzate, sono poco skillate e poco orientate alla progettazione. Quelle poche che sono state capaci di ripensarsi e riorganizzarsi profondamente, acquisendo skill, manager e capacità di innovazione, sono state in grado di reggere alla sfida di offrire buoni servizi. Quelle leggere, meno patrimonializzate e organizzate sono già scomparse, oppure vivacchiano nel sottobosco del settore, ma presto non le vorrà più nessuno”.A suo avviso, le aziende del professional cleaning sono consapevoli delle opportunità di sviluppo della logistica, così come l’abbiamo ben definita grazie a questa interessante intervista?In questi anni ho visto molte società del cleaning professionale avventurarsi su questo terreno, occupandosi anche di servizi logistici. Il che mi preoccupa non poco, dato che stiamo parlando di un altro mestiere, che si può intraprendere solo a condizione di poter investire parecchio in termini di risorse umane, know how e tecnologie. Ritengo che, per dirla tutta, ci sia ancora tanto cammino da fare – per queste aziende – in termini di investimenti umani, tecnologici e capacità progettuale. Comprendo peraltro che il problema sia abbastanza grave, in quanto ci troviamo di fronte a contratti d’appalto che lasciano consistenti margini d’azione. Accade spesso che l’interlocutore-cliente richieda all’azienda, in aggiunta ai servizi di pulizia, anche quelli di movimentazione, senza però prevedere un margine anche per la progettualità degli stessi. Il problema è che, di fronte ad un mercato estremamente competitivo e con l’offerta costantemente al ribasso, alcune aziende sono pronte a ‘sbracarsi’ pur di vincere la gara d’appalto, comprendendo nel pacchetto anche il servizio logistico. Poi però, non ci si deve lamentare del fornitore, se lo si schiaccia in questo modo, privandolo non solo della capacità di fare investimenti e progettare – ma anche della possibilità di disporre di ingegneri e di possedere un adeguato know how informatico e tecnologico. Insomma, la situazione non è delle più rosee, per questo serve una decisa inversione di rotta che faccia emergere nel settore le società che dispongano di un’adeguata e autonoma capacità d’investimento. Occorrono perciò capitali da investire nel settore, il che postula anche un ruolo diverso da parte delle banche, dei fondi e degli investitori. Il problema, più in generale, da risolvere – secondo me – è quello della stessa struttura dell’impresa italiana, poco patrimonializzata, e degli istituti bancari che si concepiscono come banche retail e non come banche d’investimento, legate come sono adesso a fondi internazionali orientati al ritorno rapido”.