La perdita di energia, cultura e patrimonio riguarda due terzi delle imprese famigliari che in Italia non passano alla seconda generazione. Alla terza ne passa il nove per cento circa. È semplicemente un problema di sopravvivenza che riguarda evoluzioni biologiche, rappresentate dalle famiglie, ed evoluzioni delle strutture culturali e patrimoniali, rappresentate appunto dalle aziende. Ho deciso di utilizzare per questo testo alcuni stralci del mio lavoro (L’ho fatto per voi, La convivenza fra generazioni nell'impresa di famiglia, Ed. Guerini, 2015) perché non c’è nulla di nuovo da inventare: i problemi sono sempre quelli. Sono quelli che dal 1974 come persona, e dal 1986 come studio professionale, affronto quotidianamente con le imprese che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare numerose negli ultimi anni.Bravi tutti a provare a salvare le aziende in crisi, magari licenziando parte delle persone che vi prestano servizio per ridurre i costi. Ma chi salva le famiglie che hanno generato le aziende? Intanto i famigliari non si possono licenziare dalla famiglia; dall’azienda sì, e talvolta facendo questo si attivano meccanismi di rivalsa che spaccano le relazioni affettive per anni, spesso in modo irrimediabile. Si salva l’azienda, si rovina la famiglia che l’ha generata: ci si può aspettare solo che prima o dopo muoia anche l’azienda stessa, che è il suo frutto.D’altra parte se per salvare le relazioni famigliari si sacrifica l’impresa, è possibile che si metta a rischio anche la sopravvivenza delle famiglie dei collaboratori che vi lavorano e magari i fabbisogni della famiglia generatrice stessa. Insomma un bel busillis. Chi si occupa di questi problemi non sa spesso da dove partire ed è per questo che una persona a me cara mi ha invitato a fermarmi per spiegarle il senso di una professione che appare fusa, di tanto in tanto confusa, fra umanità e tecnicismi, fra persone e strutture. Mi ha chiesto il perché della professione che pratico! Ho fatto analisi e anamnesi: ho capito che sono nato in un’impresa famiglia con problemi di comunicazione e difficoltà gestionali, come molte di quelle che conosco. Questa esperienza si è interrotta bruscamente, in modo traumatico per due lutti molto ravvicinati: mio padre prima e mio nonno poco dopo se ne andarono senza aver preparato gli eredi e senza aver pianificato nulla perché si potesse mantenere nel tempo il valore del loro lavoro.Io sono il risultato di un fallimento di una impresa famiglia: non fu un evento giuridico ma imprenditoriale, in quanto l’impresa fu semplicemente data in affitto in un primo momento a terzi (ex dipendenti) e poi chiusa perché noi figli eravamo minorenni e mia madre e gli altri parenti non avevano né la voglia né le competenze per proseguire con l’attività. Solo dopo vent’anni anni ho razionalizzato questa vicenda e devo ammettere che stava dietro a tutte le mie esperienze, era un inconscio bisogno di riscatto e di compensazione personale. È una storia che altri imprenditori mi hanno narrato molte volte in questi anni: adesso so che queste vicende possono avere epiloghi migliori di quello della mia famiglia.Le persone che creanoHo spiegato che il mio interesse per la vita delle aziende e in particolare per la figura dell’imprenditore si è sviluppato perché mi piacciono le persone che creano: creatori e creativi nello stesso tempo; coloro che hanno il coraggio di cominciare, di rischiare senza sapere fin dall’inizio come va a finire. Sono individui che generano vita (creatori) e generano idee (creativi) pratiche, concrete. Non è cosa da tutti e non si risolve con la solita domanda: “Imprenditori si nasce o si diventa?”. Anche perché mi sono convinto che valgano entrambe le affermazioni: si nasce e si diventa imprenditori, basta rendersene conto e volerlo diventare.Intraprendere è un lavoro che tutti sperimentiamo lungo le vie tortuose della vita; queste strade sono disegnate dalle caratteristiche biologiche di un individuo e in questo senso ereditate, anche se poi egli procede mediando di continuo con l’ambiente che lo circonda, combattendo la paura e la resistenza a cambiare e a buttarsi nel nuovo. È il processo di adattamento che ci difende come specie, nella semplice vita di tutti i giorni, e che nello stesso tempo è quello che ci ha permesso di pensare e riuscire ad andare sulla Luna. I più bravi e fortunati imparano velocemente dai propri errori, qualcun altro impara anche da quelli degli altri. È il modo di fare impresa che distingue le persone e le rende “artigiane” di manufatti, di artefatti culturali o materiali, che definiscono l’identità di ognuno. Il modo ci rende differenti, unici e irripetibili. In genere gli imprenditori sono persone che insieme a capacità e attitudini hanno una buona dose di carisma, e ottime relazioni personali con la collettività in cui vivono e che talvolta fa fatica a comprenderli, anche se ne apprezza i risultati. Ho scelto di lavorare con gli imprenditori famigliari perché le persone troppo sicure di sé mi hanno sempre reso sospettoso: i personaggi che frequento sono invece persone confuse, cioè individui posti al centro fra impresa, famiglia e territorio, che contribuiscono a creare un patrimonio di esperienze, idee e contatti umani invidiabili. Celli (2005) lo definisce “capitalismo personale”, un bene che mette la persona, il soggetto, al centro di attenzioni e vicende che costruiscono una storia e ne definiscono, ripeto, l’identità, che a mio giudizio rimane la stella polare di ogni attività imprenditoriale. Questo è uno dei punti chiave del mio lavoro: far capire che si può ereditare l’impresa ma non il capitalismo personale; a lungo andare chi accoglie l’impresa di chi ha “generato” le idee iniziali la trasformerà, realizzando un’entità organizzativa, culturale e patrimoniale diversa. Il mediatore della transizione famigliare deve tener ben presente questi principi, altrimenti rischia di non riuscire a farsi capire da una delle parti in questione.Il primo imprenditoreAlcuni pensieri sono inizialmente difficili da comprendere e accettare anche perché il punto di partenza è quasi sempre la famiglia, un’agenzia sociale, una costruzione culturale a volte complessa da far funzionare. Mi accade di ricordare talvolta agli studenti universitari il termine biblico “Fiat” molto frequente nel libro della Genesi; mi aiuta a descrivere il più famoso esempio di famiglia della tradizione giudaico-cristiana che, nonostante le premesse del suo Fondatore (“… e vide che tutto ciò era buono…”, Gen 1,3-30), non ebbe proprio vita facile. Possiamo infatti pensare a Dio come primo vero imprenditore, generatore e creatore di una storia d’impresa famigliare che a un certo punto è andata in crisi per colpa degli uomini che la componevano. Fra errori, peccati, relazioni fratricide e condanne necessarie a espiare il fallimento, l’inizio non fu certo un gran successo. Si rese necessario un Suo “piano di risanamento”, che conosciamo con il termine “Redenzione”, che è stato possibile dopo molti anni solo grazie a Suo Figlio, cioè la seconda generazione, che lo ha potuto realizzare con le storie e le “passioni” che conosciamo. Certo, anche quello fu un nuovo progetto basato su vecchi valori in linea con le esigenze di un mondo nuovo; una situazione difficile da gestire, che anche in quel caso ha messo le persone di fronte a decisioni ed iniziative da prendere in autonomia e senza un vero aiuto da parte di nessun collaboratore: un Dio in perfetta solitudine che nell’orto del Getsemani accettò il duro calice che doveva bere da solo.In sintesiÈ questa la realtà che vivono molti figli di imprenditori che si sentono schiacciati da un lato dalle storie di successo dei padri e dei nonni, dall’altro lato sentono emergere, a volte esplodere, la propria energia creativa che, a ben vedere, hanno ereditato da qualcuno. Ma questo qualcuno (i padri, le madri, gli zii, i nonni) non permette loro di esprimersi, di sperimentare cose diverse, di cambiare. E non sa, questo qualcuno, che questa sarebbe la grande opportunità di sopravvivenza delle loro imprese che con i giovani, guardando al futuro e basandosi sulle solide radici del passato, possono innovare “salvando” le attività e le famiglie, destinate diversamente a soccombere sotto il peso delle dinamiche di mercato sempre più complesse e competitive.Per questo è importante affrontare con calma, per tempo e senza sottostare al gioco dell’urgenza degli eventi precipitanti (le morti, i fallimenti, le denunce fra parenti e soci), la grande opportunità, e non il problema, del cosiddetto “cambio generazionale” che, nella maggior parte dei casi, è sempre preceduta da una convivenza spesso conflittuale e, per taluni, massacrante.Franco Cesaro