“Bio” è sempre “salutare”?

Utilizzare i microrganismi nelle pulizie è sicuro per la salute? Esponenti del mondo accademico, ospedaliero ed imprenditoriale hanno fatto il punto sullo stato dell’arte della ricerca in materia e sulle possibili implicazioni derivanti da questa particolare categoria di prodotti.
Il 19 maggio scorso, a Pulire si è svolto un incontro sul tema: “L’uso dei prodotti biologici nelle pulizie professionali: terminologia e impieghi dei detergenti biologici e dei probiotici”.Esponenti del mondo accademico, ospedaliero e imprenditoriale, hanno fatto il punto sullo stato dell’arte della ricerca in materia e sulle possibili implicazioni derivanti da questa particolare categoria di prodotti. Pier Sante Testi, Responsabile del Dipartimento Tecnico di BioFuture, azienda leader nella produzione e distribuzione di prodotti biologici, ha introdotto l’argomento spiegando nel dettaglio in cosa consiste la sanificazione di tipo biologico, partendo dalla necessità di fare chiarezza anche sulla terminologia. «L’Organizzazione Mondiale della Sanità dice che i probiotici sono quelle sostanze che, ingerite dall’ospite, gli procurano dei vantaggi. In sostanza, si parla di sostanze che si trovano anche in farmacia o sugli scaffali della grande distribuzione, yogurt e quant’altro, ossia sostanze che procurano vantaggi all’uomo. Ma quando si formulano dei prodotti detergenti, si selezionano microrganismi adatti a espletare precise funzioni. 0ssia se si deve trattare un determinato tipo di sporco, per esempio un grasso alimentare, si utilizzeranno ceppi microbici che, naturalmente, saranno diversi da quelli che si dovrebbero utilizzare per un grasso di origine vegetale. Quindi c’è una differenziazione molto importante. Tutti hanno presente il concetto di detergenza. Nella detergenza biologica, la cosa più importante che si deve fare è quella di utilizzare sostanze che siano biodegradabili, che consentano un processo di metabolizzazione. Che cosa significa questo? Significa che si devono utilizzare dei tensioattivi che siano di due specie: o di origine naturale, oppure biosurfattanti. Oggi il termine biosurfattante è inflazionato, un po’ come nel caso della bottiglia di plastica che è diventata acqua “bio”: perché “bio”? Perché c’è la metà di plastica rispetto a quella dell’anno scorso. Sì, ce ne sarà la metà, però quella metà c’è sempre. Quindi, di “bio”, che cosa c’è? In questo caso, invece, quando parliamo di biosurfattanti, parliamo di tensioattivi che sono prodotti dai microrganismi in fase di fermentazione. Cioè, quando noi andiamo in produzione, preleviamo dal frigorifero i ceppi microbici, li deponiamo, per tre o quattro giorni, in un terreno di coltura, poi li passiamo, per altri tre o quattro giorni, in un brodo di coltura, quindi li trasferiamo nel fermentatore, dove per la combinazione di nutrienti, ossigenazione, temperatura, si moltiplicano ogni venti minuti. In questa fase si verifica la produzione di biosurfattanti. I biosurfattanti hanno un potere pulente davvero eccezionale, tant’è che li utilizziamo per la pulizia delle cisterne che trasportano olio combustibile. Come tutti sappiamo, fondamentali nella detergenza sono i tensioattivi, che rompono la tensione superficiale dell’acqua. Questa è la prima fase della metabolizzazione, che è il processo completo. Per legge, i tensioattivi devono essere biodegradabili, ma, in questo caso, sono completamente biologici. La seconda fase della metabolizzazione è effettuata dagli enzimi, catalizzatori che servono per scindere le molecole lunghe, trasformando la molecola complessa in molecola semplice; successivamente, i microrganismi completano il processo di metabolizzazione, ossia la trasformazione delle sostanze organiche in acqua, anidride carbonica e reimmissione in circolo di tutti gli elementi che la compongono, lasciando sul fondo la mineralizzazione della sostanza che non viene metabolizzata. Quindi trasformiamo queste sostanze, i microrganismi le mangiano tutte quante. La detergenza biologica, che si ottiene per effetto dell’antagonismo, del trofismo competitivo dei microrganismi, si pratica dove c’è il terreno di coltura che permette di attivare il processo. Per esempio nell’industria alimentare, in ristoranti, dove si lavorano le carni, insomma dove c’è una carica organica veramente importante, dove c’è umidità importante perché vi scorre tanta acqua. La sanificazione biologica è la conseguenza della detergenza biologica. Non ci permetteremmo mai di utilizzare il prodotto biologico per disinfettare. I nostri microrganismi non sono mutanti, ma se vengono introdotti attraverso un catetere non sappiamo quali possano essere le conseguenze. È un rischio che, da produttori, non ci sentiamo di correre. Utilizzare microrganismi nel settore sanitario per noi è controproducente». Gaetano Privitera, Professore Ordinario di Igiene all’Università di Pisa, ha sottolineato che fu Louis  Pasteur il primo a scoprire l’importanza biologica dei microrganismi e ha riconosciuto la validità del loro impiego in azioni di “bioremediation”, o biorisanamento, cioè nella eliminazione di sostanze inquinanti tossiche, come olii, idrocarburi, eccetera, che vengono convertite in anidride carbonica e acqua. «Ma, quando si è in un contesto che riguarda la salute, si deve ragionare in termini diversi. In primo luogo dobbiamo chiederci se abbiamo evidenza che quanto vogliamo introdurre funziona e che funziona meglio di quanto abbiamo a disposizione, in termini ecologici, di efficacia e di sicurezza. In secondo luogo facciamo una valutazione del rischio: se ci sono vantaggi, devono essere maggiori rispetto ai potenziali rischi. Bisogna ragionare da scienziati. I probiotici fanno riferimento a contesti legati all’uomo o all’animale e alle loro cavità naturali. E funzionano attraverso una serie di meccanismi: se sulla superficie mucosa dell’intestino si attacca un batterio potenzialmente pericoloso, il probiotico è in grado di spiazzarlo, si alloca lui e l’altro viene eliminato. Oppure il probiotico mangia i substrati metabolici e il batterio muore perché non riesce a moltiplicarsi. Ma tutto questo in un contesto estremamente confinato ed ecologicamente controllato. Difficilmente però si può verificare lo stesso processo a livello di superfici inanimate, perché manca sostanzialmente il primo elemento adatto a creare una popolazione microbica, cioè l’elemento umido. Nel campo delle pulizie, infatti, si lavora essenzialmente su superfici asciutte. E il principio che viene posto è il principio della competizione biologica. Ma su che cosa? Su una piastrella, su una superficie inanimata? Non esistono recettori su cui i microrganismi si possano attaccare, non esiste una stretta dipendenza, un rapporto cellula a cellula tra batteri buoni e batteri cattivi che possano spiegare l’interazione. Certo, se si potessero eliminare i pericoli in ambiente ospedaliero con degli elementi biologici sicuri, sarebbe l’ideale, perché la salvaguardia ambientale è importantissima anche in ospedale. Infatti in ospedale vengono consegnati detergenti, disinfettanti, prodotti chimici, e tutto questo ha un impatto ambientale. Però, la prima finalità per chi opera in ambito ospedaliero è la sicurezza del paziente. E, per essere sicuri, bisogna avere evidenza del fatto che questi microrganismi probiotici funzionino. Anche le stesse industrie alimentari, soprattutto quelle latteo casearie, hanno avuto difficoltà nel dimostrare i benefici per la salute di tali microrganismi, tant’è che non parlano di probiotici. Sono caute. A maggior ragione, quindi, è difficile dimostrare benefici per la salute immettendo dei batteri in ambiente ospedaliero. Ragionando da scienziati: quando noi possiamo fidarci di una cosa? I medici e i ricercatori si attengono al proverbio più antico: “Una rondine non fa primavera”. Devono avere più fonti, distinte, che dicano una cosa coerente e, soprattutto, riproducibile. In questo contesto, invece, ci sono pochi lavori pubblicati su riviste scientificamente attendibili e che per giunta vengono da un solo laboratorio. Quindi, manca una coralità di evidenze che ci dicano che i probiotici funzionano in contesto ospedaliero. Quando avremo un’evidenza maggiore, ci potremo credere. In scultura, un’opera si realizza o aggiungendo o sottraendo materiale. Per esempio, Michelangelo sottraeva materiale al blocco di marmo per estrarne la statua. Io penso che, per i nostri pazienti, in ospedale la filosofia debba essere quella del levare. Io preferisco avere un ambiente pulito, con meno batteri, piuttosto che aggiungere altri batteri, pensando, senza averlo dimostrato, che questi ultimi prevengano l’effetto di altri batteri potenzialmente lesivi. Però, se sono molto contento che si possa pulire una porcilaia o delle acque reflue immettendo micorganismi, penso che le persone meritino l’attenzione per lo meno di un circuito elettronico. Perciò, se l’industria elettronica lavora nella logica della “clean room”, di uno spazio pulito dove non ci siano contaminanti, né microbici né di particelle corpuscolari, perché in ambiente sanitario si devono immettere microrganismi che si pretende, senza una vera dimostrazione, che siano sicuri? Certamente i batteri che vengono utilizzati in questi prodotti sono classificati di classe 1, quindi di poca patogenicità, ma in ospedale, oggi, ci sono essenzialmente ospiti fragili, persone per le quali qualsiasi microrganismo, anche ambientale (ci sono sempre più batteri nell’ambiente e abbiamo sempre più bisogno di avere un ambiente pulito e privo di microrganismi) e anche innocuo per la maggior parte della popolazione, può essere pericoloso. Possiamo dire che trattiamo le superfici calpestabili, che non trattiamo le aree particolarmente critiche, ma i batteri sopravvivono nell’ambiente e si muovono, con le suole delle scarpe, con il pulviscolo atmosferico, e quello che si mette su una superficie inanimata, soprattutto i batteri sporigeni, possono andare a contaminare superfici critiche, per cui se si appoggia una siringa, il catetere, e poi si utilizzano per pratiche assistenziali, il paziente si ritrova all’interno del corpo, nel sangue, in una ferita, microrganismi che sono stati usati per pulire i pavimenti. E poi, negli appalti di pulizia, c’è l’esigenza di attenersi ai criteri ambientali, di verificare che l’ambiente sia davvero pulito, come da corretta esecuzione del capitolato. Ma come andiamo a pulire se andiamo a contaminare? Che standard abbiamo di verifica della bonifica ambientale, se immettiamo microrganismi? Sono tre gli elementi del controllo della sanificazione all’interno delle strutture sanitarie (come anche delle strutture alimentari): l’ispezione visiva, il controllo microbiologico, il campionamento delle superfici, e qui possiamo avere delle interferenze, e la verifica della presenza di ATP con tecniche di bioluminescenza che, rispetto alle tecniche colturali che richiedono parecchie ore, danno evidenza immediata del grado di pulizia, cosicché, nel caso, si possa rimediare subito. Quindi, ci sono tante problematiche che sconsigliano di applicare elementi microbici al fine di pulire e rendere più sano l’ospedale, essenzialmente per il principio di precauzione. E’ un parere personale, però questi stessi prodotti sono stati analizzati da laboratorio di sanità pubblica del sistema sanitario britannico un paio di anni fa e sono stati definiti, in modo molto obiettivo, senza evidenza scientifica, sia per quanto riguarda l’efficacia, sia per quanto riguarda la sicurezza. Quindi, in questo contesto, visto che si lavora sulla salute delle persone, visto che a oggi non c’è evidenza e che non sappiamo quali rischi possano correre i nostri pazienti, diventa dominante applicare il principio di precauzione». A questo punto, Pier Sante Testi è intervenuto per avallare le ultime affermazioni del professor Privitera: «In Italia abbiamo eseguito trattamenti con i detergenti biologici (li chiamiamo così e non autorizziamo alcuno a definirli probiotici) anche sulle superfici che entrano a contatto con gli alimenti, come il teflon, che è difficile da pulire. Lo abbiamo trattato, però, alla fine, essendo in Italia ed essendoci una legge specifica per cui la superficie che viene a contatto con gli alimenti deve essere disinfettata, lo abbiamo disinfettato con un prodotto molto blando, perché non andasse a inficiare il trattamento. Invece, in Inghilterra e in tutto il mondo anglosassone, è assolutamente vietato utilizzare un prodotto microbico per la pulizia di superfici che vengono a contatto con alimenti». Anche il dottor Fabio Tumietto, Responsabile Controllo Infezioni Ospedaliere presso l’ A.O. S. Orsola di Bologna, vicepresidente di SIMPIOS, ha sottolineato come sia fondamentale tenere una posizione di prudenza quando si parla di microrganismi, e ha citato il documento elaborato (leggi a pag. –ndr) in merito proprio da Simpios, Società Italiana Multidisciplinare per la Prevenzione delle Infezioni nelle Organizzazioni Sanitarie. «La posizione di Simpios è molto prudente, nel senso che, in mancanza di evidenza in termini di efficacia, in termini di biosepsi per il malato, è difficile immaginare che si possa proporre a un ospedale di affiancare questi prodotti nelle pratiche di pulizia. Non si tratta della prudenza di colui che, fino a che non vede, non crede, ma, purtroppo, la medicina è basata proprio sul principio del “se non vedo, non credo”.C’è bisogno di semplici documentazioni, possibilmente inoppugnabili, per poter proporre qualcosa di innovativo. Avete vissuto tutti, leggendola sui giornali, la storia di Ebola. In Italia si sono verificati due casi e il sistema ha retto, e fino ad ora non ci sono stati i problemi che si sono creati in paesi ritenuti anche più all’avanguardia di noi in alcuni modelli. Però, non sappiamo ancora con certezza che cosa ha fatto sopravvivere coloro che sono stati curati nei nostri ospedali. Un nostro socio Simpios, responsabile della task force Ebola a Roma, ha confessato che, nei due casi, è stato provato ciò che c’era a disposizione, ma non si sa ancora che cosa abbia funzionato. Potrebbe aver funzionato semplicemente il sistema immunitario del paziente. Pertanto, in questo caso, a fronte di questa proposta, io (e intendo io nel senso più lato) vivo molto la suggestione di abbandonare la chimica o di ridurne la presenza. È sicuramente molto suggestivo, in termini di “green”. Perché non essere green anche nelle attività di pulizia e soprattutto in ambienti importanti come gli ospedali? Però, quando un ammalato viene sottoposto a trapianto di midollo osseo, la prima cosa che riceve dalla caposala è un foglio con indicazioni su come deve alimentarsi: non deve bere acqua di rubinetto, ma acqua confezionata, perché l’acqua confezionata è un’acqua dove la carica microbica è un requisito preciso, richiesto a chi confeziona l’acqua; deve mangiare cibi cotti, almeno per molto tempo, perché non ha sistema immunitario. L’ospedale, anche il più bello e moderno, è una struttura fragile per definizione. Al Sant’Orsola Malpighi, ci sono 1500 posti letto, 60 divisioni di ricovero, 8 unità di terapia intensiva, ogni giorno entrano ed escono 24.000 persone, che portano dentro e fuori i loro microbi, che normalmente caratterizzano il loro intestino, la loro vita. E i nostri ospedali sono strutture in cui tutti i professionisti, dal primo all’ultimo, fanno un po’ fatica a lavarsi le mani. Mi rimane difficoltoso immaginare che in questo sistema, in cui cerchiamo di ricordare che esistono degli standard e a cui non chiediamo nulla di più che garantire il minimo necessario, per la pulizia di alcune o tutte le superfici si introducano nuovi germi, nuovi batteri. Quando ho ricevuto tempo fa la suggestione di questo argomento, da uomo di scienza, mi sono detto che non dovevo lasciarmi condizionare dalle impressioni epidermiche, perciò sono andato a leggere, per documentarmi. Ho iniziato a leggere e ho letto bacillus: ma io una miocardite da lactobacillus l’ho vista, non è stato facile curarla e alla fine non l’ho curata io, ma il cardiochirurgo, perché la valvola aortica bicuspide, che il malato aveva, era dovuta alla crescita di “vegetazione” per cui il paziente si è ammalato di miocardite. La vegetazione era dovuta a un lactobacillus, non facile da curare, tento è vero che si è dovuto sostituire la valvola aortica con una valvola meccanica. Non è certo un caso frequente, ma non voglio che queste infezioni diventino frequenti, perché sarebbe quanto meno imbarazzante. Noi perseguiamo, e dobbiamo perseguire, la biosepsi. Ho l’obbligo etico, morale, pratico, di garantire al mio ammalato il massimo della sicurezza, e, a maggior ragione, in un mondo che, insieme con gli ospedali, ha creato le infezioni ospedaliere, che ora si chiamano Infezioni Correlate all’Assistenza, perché sono uscite dagli ospedali, sono entrate nei laboratori specialistici, nei day hospital, nelle day surgeries, nelle emodialisi, dove una persona va quindici ore alla settimana, per sostituire la funzione renale con la circolazione extracorporea. Noi a queste persone diamo delle risposte meravigliose sul piano medico; infatti, siamo una popolazione di grandi anziani, perché viviamo di più, in quanto la medicina funziona. Ma non possiamo pensare di mettere in crisi il sistema, proponendo qualcosa di molto suggestivo, molto interessante, ma non provato. Quando sarà provato che la biosepsi è garantita, che l’evidenza è ottenuta, per alcuni razionali applicativi, Simpios sarà pronta ad accettare questi prodotti. Io sono infettivologo, mi occupo del controllo delle infezioni ospedaliere, delle infezioni correlate all’assistenza, per cui mi interessa che il minor numero possibile di ammalati, che entrano in ospedale per un infarto, sono curati e guariti, tornino a casa con una polmonite contratta durante il ricovero. Io ho il compito di difenderli da tutto ciò. In Italia muoiono per ICA più di 7000 pazienti all’anno, più del doppio delle vittime di incidenti stradali: è una strage. In Italia la lotta alle infezioni ospedaliere è partita male, non c’è un forte sostegno legislativo. In più ci sono pastoie burocratiche. Per esempio, per decidere una campagna per il lavaggio delle mani, occorre affrontare una decina di direzioni, uffici, competenze e quant’altro. Ora, ribadisco, l’uomo di scienza non dà mai risposte a priori. L’uomo di scienza dà risposte a fronte delle evidenze. Chiediamo che sia costruita un’evidenza. Lo chiediamo fortemente, perché non possiamo permetterci di abbassare ulteriormente uno standard che è già molto basso in Italia. Non voglio parlare della Gran Bretagna, dove è nata la scienza dei controlli delle strutture di assistenza. Noi siamo indietro, abbiamo molta strada da fare in questo senso. Dobbiamo insegnare ai nostri medici, ai nostri infermieri, a lavarsi costantemente le mani. Ma farlo e intanto immettere nell’ambiente germi, con un obiettivo anche nobile, è un po’, non dico configgente, ma complesso e un po’ imbarazzante. I germi sono microrganismi molto piccoli, ma non sono cretini. Hanno l’obiettivo di mantenere la specie. Per farlo hanno imparato a replicarsi molto velocemente. Tanto velocemente che qualche volta sbagliano e, tra questi errori, c’è quello di codificare la resistenza agli antibiotici. Il più delle volte, se facciamo crescere in un ambiente condizionato, cioè ricco di antibiotici, i germi, moltissimi muoiono, anzi la prima volta muoiono tutti. Ma siccome sono piccoli ma non cretini, la seconda o la terza volta qualcuno trova il sistema, grazie a degli errori dati dalla velocità di replicazione, di resistere agli antibiotici. Confezionano un sistema genetico – sono piccoli, non cretini e hanno anche delle sequenze geniche - confezionano dei sistemi di resistenza. La nota culturale è che sono talmente piccoli e talmente poco cretini, che hanno imparato a cedere agli altri germi i geni delle resistenze. Pertanto succede che quando si va a ritirare l’urinocoltura in cui si dice che è cresciuta l’esterichia coli, quella Resistenza (R) ad alcuni antibiotici può essere ceduta a un altro germe diverso ma simile, che si chiama probius. Perché racconto questa storia? Perché non è scritto da nessuna parte che i germi competitori, che potremmo mettere in un ambiente delicato come quello di un ospedale, di un ambulatorio, ai fini di pulizia, non siano in grado di integrare i sistemi di resistenza dei germi presenti e ben più noti nell’organismo. Queste sono intriganti ipotesi che riferisco per fare capire che cosa si intenda per biosepsi, biosicurezza degli ammalati. A fronte del non sapere, o me lo dimostri o mi astengo. Oppure propongo cose alternative». Il professor Privitera ha concluso proponendo un “salto in avanti”: «Dall’ambiente sanitario escono una serie di inquinanti ambientali che hanno un effetto biologico importante. Ormoni, farmaci, sostanze similormonali che hanno impatto sul ciclo ecologico. Alcune lumache, che sono ermafrodite, hanno alterato il loro ciclo vitale, perché nelle acque delle rogge di Milano, dove vivono, si trovano estrogeni e progestinici, dovuti alla pillola che assumono le donne. Allora, un effetto di “bioremediation” anche sulle strutture sanitarie, sul trattamento delle acque reflue con microrganismi in grado di degradare farmaci, sostanze che abbiano un funzione di interferenti endocrini o di interferenti ambientali, lo vedrei molto bene. Un’applicazione non in entrata, ma in uscita, potrebbe essere molto benvenuta. Inviterei a verificare delle possibilità di impiego di questo tipo, che sono estremamente importanti. Il problema degli interferenti endocrini è molto sentito, perché sono anche dei componenti filmanti di plastiche, dei biberon dei bambini, interferiscono con l’evoluzione e la maturazione sessuale eccetera. Forse, quindi, c’è una possibilità di utilizzare i prodotti biologici in questo senso. Ma in ingresso, mi spiace, occorre aspettare un’evidenza sicura. Peraltro possiamo valutare delle alternative. Siamo sensibili all’aspetto ecologico. All’interno dell’ospedale chi si occupa del controllo delle infezioni, ma soprattutto di tutto l’impatto che l’ospedale ha dal punto di vista energetico, dal punto di vista inquinante, ha delle alternative anche per quanto riguarda la sanificazione. C’è la possibilità di fare disinfezione con la luce pulsata, ci sono grandi aspettative rispetto alle microfibre, si può pensare all’applicazione del vapore, ad applicazioni miste per pulire in modo più green senza far correre rischi ai pazienti. Non c’è alcuna preclusione, ma lo scopo principale è quello di salvaguardare la salute dei pazienti, senza aggiungere elementi potenzialmente rischiosi. Dobbiamo costruire sistemi che rendano assolutamente più sicuri i percorsi dei pazienti».

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