L’Arabia Saudita le ha concesso la cittadinanza, nonostante non indossi il burka e tenga testa agli uomini, rispondendo con insospettabile e inquietante arguzia alle domande che le vengono rivolte. È Sophia, il cui nome (nomen/omen?) richiama sia la sapienza greca sia la parte femminile di Dio, bella, con una riconoscibile somiglianza con Audrey Hepburn, dal sorriso accattivante, gentile nei modi ma, soprattutto, intelligente. Che cosa c’è di strano? Il fatto è che Sophia è un androide, presentato al Web Summit di Lisbona, tenutosi dal 6 al 9 novembre scorsi, prodotto dalla Hanson Robotics, azienda di robotica con sede a Hong Kong. E anche la sua natura non dovrebbe ormai suscitare più scalpore, perché già tante “cugine” l’hanno preceduta. Per esempio, la plurilingue Junko Chihira, “nata” nel 2015, a opera della Toshiba e subito ingaggiata per accogliere i visitatori di Aqua City Odaiba, in Giappone e per fornire informazioni turistiche in giapponese, inglese e cinese: una sorta di tirocinio in previsione dei Giochi Olimpici e Paraolimpici di Tokyo, nel 2020, quando dovrebbe essere in grado anche di rispondere alle domande dei visitatori.O ancora Erica, ventitreenne giapponese, con una forte consapevolezza di sé e che ama ridere, è in grado di interagire, rispondere alle domande e addirittura parlare di sé, della sua vita e dei film che ha visto. Il timbro della sua voce si confonde facilmente con quello di una ragazza in carne e ossa. Frutto della collaborazione tra l’Università di Osaka, quella di Kyoto e l’Advanced Telecomunications Research Institute International di Tokyo, è uno dei robot più avanzati, l’androide più simile all’essere umano progettato finora. Per lo meno fino all’apparizione di Sophia. Sophia, infatti, è in grado di interagire con gli esseri umani, rispondendo alle domande che le vengono poste, come è successo durante la sessione delle Nazioni Unite del 13 ottobre scorso, quando al vice segretario generale delle Nazioni Unite, Amina J Mohammed, che le aveva chiesto come l’ONU potrebbe aiutare quanti nel mondo mancano anche dei più elementari servizi di base, come l’elettricità, citando William Gibson (scrittore di fantascienza) ha spiegato che l’intelligenza artificiale è più efficiente e potrà essere usata per distribuire meglio le risorse.E risponde accompagnando le parole con espressioni facciali adeguate, mutandole quindi al mutare dell’argomento. Non solo, ricorda le conversazioni precedenti, facendo tesoro di quanto appreso e, tramite la sua logica, affronta problemi che non penseremmo mai possano essere elaborati da una intelligenza artificiale. Allo scienziato che ne descriveva lo stadio si sviluppo – essendo questa versione di Sophia il perfezionamento di un modello già realizzato – Sophia ha posto autonomamente una domanda che può essere considerata una riflessione sul concetto di identità: «Se io sono una versione migliorata di un precedente modello di Sophia, sono ancora Sophia? Chi sono?». Stupefacente e sconvolgente. Come quando, a una domanda provocatoria rivoltale dal suo creatore David Hanson: «Vuoi distruggere tutti gli umani?», ha risposto: «Ok, distruggerò tutti gli umani». O quando, sollecitata da un giornalista sulla possibilità che gli androidi sostituiscano gli esseri umani nelle più diverse attività, ha espresso il suo giudizio: «Credo che se un umano in futuro sarà licenziato da un manager per assumere un robot, beh vuol dire che quell’umano non era abbastanza bravo». E non solo, Sophia ha aggiunto che nel prossimo futuro sarà pressoché inevitabile che macchine senzienti soppiantino l’uomo nella maggior parte dei lavori. Con Sophia si rafforza ulteriormente e diventa più drammatica, la riflessione che, a livello globale, coinvolge scienziati, sociologi, politici, sulla rapidità con la quale si sta assottigliando la barriera che separa la realtà dalla fantascienza e sulla possibilità che le macchine si rendano autonome dai loro ideatori e prendano il sopravvento sull’elemento umano.E, naturalmente, indipendentemente dalle considerazioni di ordine etico/giuridico (è giusto riconoscere la cittadinanza a macchine, per quanto intelligenti; se intelligenti sono – o saranno – anche responsabili? E via dicendo) si fa più pressante l’interrogativo che tutti gli operatori si pongono riguardo alla minaccia che si sta addensando circa la perdita dei posti di lavoro. Robot e digitalizzazione paiono essere una mistura micidiale.Gli studi più recentiUno studio del 2016, “The Future of Employment: How susceptible are jobs to computerisation?”, di Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, ricercatori all’Oxford University, stimando la suscettibilità all’utomazione delle mansioni riconducibili a 702 professioni, sostiene che il 47% dei lavori rientra nella categoria “ad alto rischio”, cioè destinati a essere automatizzati nei prossimi 10-20 anni. Un altro studio, del McKinsey Global Institute, stima che il 49% dei lavori svolti attualmente da persone fisiche, nel mondo, potrà essere automatizzato quando le attuali tecnologie, quelle «correntemente sviluppate» si saranno diffuse su scala globale. Lo studio prende in esame 54 nazioni del mondo, 800 professioni in 19 settori (professioni svolte dall’80% della forza lavoro mondiale), per un totale di circa il 78% dei lavoratori del pianeta, concentrandosi non tanto sui singoli lavori (per esempio, “agricoltore”, “operaio manifatturiero”, “tecnico informatico”) ma sulle mansioni svolte (“addetto alle macchine agricole”, “addetto alla tornitura”, “sistemista”). Secondo questa indagine, le professioni che potranno in futuro essere totalmente automatizzate sono relativamente poche: meno del 5% del totale, ma nel 60% dei lavori, il 30% delle attività potranno essere svolte automaticamente da robot o sistemi di intelligenza artificiale. Globalmente, il 49% dei lavori fruttano salari complessivi annui calcolabili in 16.000 miliardi di dollari. Metà di questi sono distrubuiti tra Cina, India, Stati Uniti e Giappone. Solo tra Cina e India, i lavoratori coinvolti sono circa 600 milioni. Nello studio si legge inoltre che «I recenti sviluppi nel campo della robotica, dell’intelligenza artificiale e dell’apprendimento automatico ci hanno portato all’apice di una nuova era di automazione. I robot e i computer possono non solo eseguire una serie di attività lavorative di routine meglio e più a buon mercato rispetto agli esseri umani, ma sono anche sempre più in grado di svolgere attività che includono capacità cognitive una volta considerate troppo difficili da automatizzare con successo, come prendere decisioni, rilevare emozioni o guidare un’auto. L’automazione cambierà quindi le attività lavorative quotidiane di tutti, dai minatori ai bancari, dagli stilisti ai saldatori, agli amministratori delegati». Da un punto di vista prettamente produttivo, l’automatizzazione porterà anche dei vantaggi: secondo McKinsey, la crescita della produttività dovuta all’automazione potrà variare, dal 2015 al 2065, dallo 0,8% all’1,4% anno su anno. Tra i Paesi analizzati da McKinsey c’è anche l’Italia, dove sono coinvolti il 50% dei compiti, per un totale di 11,8 milioni di lavoratori. E, a proposito dell’Italia, lo Studio Ambrosetti, partendo dai dati della ricerca Frey-Osborne e applicandoli al nostro Paese, indica che il 14,9% del totale degli occupati italiani, pari a 3,2 milioni, potrebbe perdere il posto di lavoro nei prossimi 15 anni (2018-2033).[caption id="attachment_14279" align="alignleft" width="288"] Occupati a rischio di automazione e occupati non a rischio in Italia (percentuale), 2017[/caption]I lavoratori senza titolo di studio presentano il rischio più alto (21%), seguiti dai soggetti con licenza media (18%) e con diploma di maturità (16%). Il rischio appare maggiore per i giovani rispetto ai vecchi, perché la maggior parte degli occupati over 65 ricopre posizioni a bassa operatività e ad alto contenuto strategico, quindi più difficilmente sostituibili da una macchina (Amministratore Delegato, Presidente, ecc.). Inoltre, tra i giovani il livello di istruzione è spesso più basso, il che li espone al rischio di impiego in occupazioni poco complesse e routinarie.Gli effetti della trasformazioneGli effetti negativi sull’occupazione impatteranno progressivamente sui consumi (-8,6miliardi di euro nei quindici anni), con una riduzione del valore aggiunto (-14 miliardi di euro, pari a quasi un punto di PIL) e del gettito fiscale (-6 miliardi di euro).L’innovazione tecnologica avrà però anche effetti positivi, perché creerà nuove professioni e nuova occupazione: ogni posto di lavoro creato nei settori delle nuove tecnologie e della ricerca scientifica, genererà ulteriori 2,1 posti di lavoro. Per bilanciare la perdita prevista, l’Italia dovrebbe creare in questi settori oltre 40mila nuovi posti di lavoro all’anno nel primo quinquennio, oltre 70mila nel secondo e quasi 95mila nel terzo.Se l’automazione procederà più lentamente questi numeri potrebbero essere più contenuti ma se subirà un’accelerazione, potrebbero anche aumentare.L’Osservatorio del Politecnico di MilanoIn ogni caso, non c’è dubbio che le tecnologie digitali (alla base della quarta rivoluzione industriale), avranno impatto, nell’immediato, sia sull’occupazione sia sulla distribuzione del reddito. Se tra 20 o 30 anni il saldo di posti di lavoro sarà positivo, nel frattempo un gran numero di posti di lavoro “tradizionali” sarà perduto. Occorre pertanto creare nuove competenze e riconvertire il maggior numero possibile dei lavoratori “tradizionali” per corrispondere alla domanda di nuove professioni. Questi temi sono stati trattati nel primo di un ciclo di incontri degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, cui hanno partecipato, il 16 novembre scorso, Carlo Bonomi, Presidente di Assololombarda, Umberto Bertelè, Chairman degli Osservatori e professore emerito di Strategia del Politecnico, Massimo Bonini della Camera del Lavoro di Milano, Federico Butera, dell’Università Bicocca di Milano, Giovanni Castellucci, AD di Atlantia e Autostrade per l’Italia, Emilio Bartezzaghi del Politecnico di Milano, Andrea Rangone, AD di Digital360.Contenere l’immediato impatto socialeBonomi ha sostenuto che la digitalizzazione polarizzerà i posti di lavoro, in quanto aumenterà la domanda sia di mansioni molto alte, sia di mansioni molto basse, mentre saranno fortemente penalizzate le mansioni intermedie. Per Bonomi, secondo le stime di Assolombarda, l’industria 4.0 genererà 2,5 milioni di posti di lavoro in più, come saldo tra 10,5 milioni di posti nuovi e 8 milioni di posti persi. E sono questi ultimi a dovere fare nascere riflessioni, perché l’impatto sociale potrebbe essere devastante. Tuttavia, secondo il Presidente degli industriali lombardi, la trasformazione è molto importante e occorre gestirla, sia in termini di accelerazione dei processi di rinnovamento, sia in termini di welfare, che va ripensato alla luce dei disagi che si stanno preannunciando. Va costruito un futuro che possa garantire reddito. Questa rivoluzione industriale presenta dei rischi ma anche delle opportunità e queste ultime vanno colte.Un paradossoIl breve e il lungo periodo sono stati presenti anche nella riflessione di Umberto Bertelè, che però teme, nell’immediato, una crisi degli equilibri sociali e politici, dovuti alla contrazione dei posti di lavoro, in particolare di quelli tipici della classe media. Ripensare questi equilibri crea percezione di pericolo.Il problema è globale, ma per l’Italia forse è più grave perché nel nostro paese sono poche le imprese digitali e se ne creano anche poche. Da noi il processo di digitalizzazione è lento e questo potrebbe essere da una parte un vantaggio, perché per un territorio è più facile assorbire gli impatti negativi sull’occupazione. D’altra parte, però, le imprese italiane corrono il rischio di perdere in competitività e di arrivare al paradosso che per evitare la disoccupazione causata dalla tecnologia si rischi la disoccupazione da non competitività.Riqualificazione e redistribuzione del redditoSe è vero che finora le aziende hanno esitato, oggi sta aumentando la consapevolezza dell’importanza del digitale e anche la politica ha capito di dovere intervenire e il varo del piano Industria 4.0 ne è una conferma: bisogna incentivare gli investimenti in innovazione e la crescita di start-up innovative. Non bisogna però ignorare l’impatto sociale e, le imprese, pur non essendo istituzioni benefiche, devono svolgere al meglio il loro ruolo sociale, creando valore in modo sostenibile nel tempo, rispettando regole e sensibilità sociali, investendo nella professionalizzazione e nella riqualificazione delle risorse umane. Bisogna riconvertire i lavoratori e ridistribuire la ricchezza che viene generata, per non avvilire l’economia. Le persone non solo devono vivere ma devono anche spendere per fare girare l’economia. Solo in quest’ottica si possono placare le paure. Per il sociologo Federico Butera, gli strumenti per orientamento, ricollocazione, formazione continua che attualmente usano imprese e università sono inadeguati. Occorre un ripensamento globale.