di Francesca ScelsiCi sembra facile comunicare e nella maggior parte dei casi siamo pronti a giurare di avere spiegato bene al nostro collega il compito da portare a termine, di avere espresso con chiarezza le nostre intenzioni al capo e di avere una comunicazione efficace con il nostro partner e i nostri figli. Eppure ci imbattiamo molto spesso in discussioni, siamo vittime di incomprensioni e abbiamo costantemente la sensazione di non essere compresi a pieno. Quanto sarebbe bello potersi esprimere in maniera limpida e diretta, manifestando i nostri bisogni e senza correre il rischio di non venire capiti! Bene, studiare la comunicazione ci dà il vantaggio di conoscerne le dinamiche e applicare dei piccoli trucchetti che possano renderci la vita più semplice. Anzitutto la responsabilità della comunicazione è sempre del mittente e mai del destinatario; prendersi la responsabilità di fare arrivare il messaggio, ci dà la possibilità di agire sulla nostra comunicazione e migliorarla. Se il destinatario non comprende il messaggio o lo comprende in maniera fuorviata, sarà nostra responsabilità riformularlo e usare degli espedienti migliori per essere sicuri che l’altro abbia compreso esattamente le nostre intenzioni di comunicazione.Dobbiamo inoltre tenere conto che la comunicazione è fatta per il 93% dal nostro linguaggio non verbale e paraverbale mentre solo per un 7% dal contenuto semantico. Dunque è molto più importante il “come” del “cosa” e questo è un aspetto su cui molti non prestano abbastanza attenzione. Il come è fatto dal nostro Body Language, dalla mimica facciale e dalla modulazione corretta della voce. Dobbiamo sempre accertarci che ci sia coerenza fra i tre canali di comunicazione e utilizzare corpo e voce a sostegno del messaggio che vogliamo inviare. Queste teorie sono valide tanto per le comunicazioni private quanto per le occasioni di public speaking in cui se vorrò persuadere il mio pubblico dovrò fare leva su ogni canale, per rendere più credibile e accettabile la mia richiesta (a maggior ragione quando stiamo chiedendo al nostro pubblico, di cambiare i propri comportamenti o di assumerne di nuovi).Ogni forma di comunicazione implica un influenzamentoQuando comunichiamo con qualcuno stiamo in realtà cercando di “portarlo dalla nostra parte”, stiamo sempre cercando di fargli vedere le cose dal nostro punto di vista, vogliamo influenzarlo e far sì che inizi a vedere le cose come le vediamo noi. La prima regola aurea per far sì che ciò diventi realtà è quella di “assumere che l’altro abbia ragione”. Diceva Pascal “si persuade meglio chi si persuade solo” e questo significa che provare a convincere l’altro di aver torto è molto probabilmente una strategia destinata al fallimento, anzi è una non-strategia. Cercare di convincere qualcuno che sta sbagliando è quanto di più inefficace si possa fare in termini di comunicazione strategica, perché non farà altro che aumentare le sue resistenze al cambiamento e porterà il nostro interlocutore ad arroccarsi sulla sua posizione senza darci possibilità di avvicinamento. Al contrario, se noi assumiamo con sincerità che l’altro possa avere ragione, impariamo a metterci nei suoi panni e capiamo quali ostacoli in quel momento gli stanno impedendo di vedere le cose come le vediamo noi. Paul Watzalawick padre dei cinque assiomi della comunicazione ed esponente della Scuola statunitense di Palo Alto, diceva: “Hai perfettamente ragione.. dal tuo punto di vista” per rimarcare l’inesistenza della verità assoluta ma al contrario l’esistenza di tante piccole verità legate alle singole percezioni soggettive di ciascuna persona. Se io assumo che l’altro abbia ragione, legittimo il suo punto di vista e mi sarà più facile scardinarlo attraverso domande mirate che aiutino l’interlocutore ad allargare la propria visione di realtà (introducendo anche la mia). Per fare ciò entra in gioco uno strumento essenziale della comunicazione efficace ovvero: la capacità di fare domande. Si dice che “chi domanda comanda” proprio per sottolineare il potere del fare domande e l’importanza che le domande rivestono nella comunicazione. Fare domande per esempio per accertarsi di avere compreso bene quanto ci è appena stato riferito, oppure per approfondire aspetti che non abbiamo pienamente compreso e inquadrato, ci consente di prendere tempo e riflettere su come sta andando la comunicazione ma soprattutto ci dà la possibilità di creare sintonia all’interno della relazione. Un buon comunicatore è colui che stabilisce una relazione con il proprio interlocutore perché sa che una relazione sintonica gli darà maggiori possibilità di portare a destinazione il proprio messaggio comunicativo. Le domande facilitano la costruzione della relazione in quanto costruiscono dei piccoli “accordi” fra le parti, dove insieme conveniamo di esserci capiti fino a quel punto e decidiamo di andare avanti nella conversazione. Anche la semplice parafrasi (che tanto semplice non è) è un formidabile strumento comunicativo proprio perché mi consente di stabilire la relazione con l’altro e di avvicinarmi quanto più possibile al suo punto di vista. Fondamentale poi giocare nella relazione sia sull’aspetto razionale in cui ci impegniamo in accurate descrizioni di un fatto o del nostro pensiero, ma anche sull’aspetto emotivo che ci assicura un coinvolgimento maggiore e un ascolto più attento da parte del nostro interlocutore. La comunicazione che funziona non è mai quella che “spiega” ma è quella che “fa sentire”. Lo spiega bene lo psicoterapeuta Giorgio Nardone in molti dei suoi libri quando per persuadere i propri pazienti ad accogliere determinate prescrizioni, utilizza il linguaggio evocativo, quello che parla alla pancia delle persone e non (solo) al cervello. Per fare ciò si può utilizzare un vasto ventaglio di figure retoriche, utili nel nostro linguaggio proprio per “creare un effetto” nell’interlocutore, agganciarlo, persuaderlo, coinvolgerlo a livello emotivo. Le più utilizzate nella comunicazione strategica sono certamente le similitudini, le metafore e anche la narrazione di storie. Un esempio? Immaginate di dover aiutare un amico a non farsi più trattare male dal proprio datore di lavoro. Non sarà molto utile spiegargli in maniera razionale e metodica tutti i motivi per cui è sbagliato farsi trattare male; infatti queste motivazioni saranno ben comprese e condivise anche dal nostro stesso amico, che tuttavia non riuscirà a modificare la propria posizione di sottomissione. Se vogliamo veramente che la nostra comunicazione abbia effetto dovremo coinvolgerlo a livello emotivo e “fargli sentire” una sensazione di avversione nei confronti di quella situazione. Potremo ad esempio chiedergli se “si rende conto di essere come un pozzo senza fondo in cui chiunque può riversare la propria spazzatura”. L’utilizzo di una immagine evocativa così forte e cruda, farà sì che l’intento comunicativo abbia più efficacia e con più probabilità porterà il nostro amico a modificare il suo comportamento di accettazione passiva.