Una seconda vita per le mascherine usate

di Cristina CardinaliL’Organizzazione francese Opération Mer Propre (OMP), dopo aver scoperto moltissime mascherine usa e getta e guanti in lattice nei fondali del Mediterraneo, ha sottolineato che, se anche solo l’1% delle mascherine fosse smaltito in modo non corretto, questo significherebbe ogni mese 10 milioni di questi dispositivi dispersi nell’ambiente. Il pericolo è che finiscano per diventare onnipresenti nell’ambiente: le sole mascherine per la bocca impiegano fino a 450 anni per decomporsi nell'ambiente (fonte: Dipartimento per l'ambiente marino del Servizio sanitario pubblico federale belga). Ovviamente non è il solo Mediterraneo ad essere in pericolo. Anche OceansAsia, organizzazione con base a Hong Kong, ha espresso le stesse preoccupazioni della ONG francese.Questo enorme quantitativo di mascherine usate che finiscono in discariche, corsi d’acqua e oceani, ha dato il via ad una serie di ricerche su un loro possibile riciclo. Alla RMIT University, in Australia, un gruppo di scienziati sta testando l’utilizzo del materiale ottenuto dalle mascherine chirurgiche nella pavimentazione stradale.Strade riciclateIl corpo stradale è normalmente costituito da quattro strati: fondo, base, legante e asfalto. Ognuno di questi deve essere sia resistente che flessibile per sopportare le pressioni dei veicoli pesanti e prevenire fessurazioni. In questa struttura hanno fatto da tempo capolino i rifiuti edilizi, sotto forma di aggregati di calcestruzzo riciclato (ACR). L’idea del gruppo australiano è stato quella di aggiungere maschere usate sminuzzate all’agglomerato riciclato, testando diverse percentuali. Hanno così scoperto che la miscela ideale prevede l’1% di rifiuti di mascherine con il 99% di ACR. Il risultato è un prodotto perfettamente conforme agli standard d’ingegneria civile richiesti per le pavimentazioni. Inoltre la loro aggiunta migliora duttilità e flessibilità della miscela. (lo studio è stato pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment).BiocarburanteUn gruppo di esperti dell’University of Petroleum and Energy Studies, in India, ipotizzano la possibilità di trasformare i rifiuti del COVID-19 in biocarburanti. Lo studio – pubblicato sulla rivista Biofuels – mostra come lo strato plastico di propilene, contenuto in miliardi di articoli DPI usa e getta, possa essere convertito in biocrude, un tipo di combustibile sintetico. Le analisi effettuate dal team hanno portato alla conclusione che la plastica dei dispositivi di protezione individuale possa essere convertita in combustibile mediante pirolisi. Questo è un processo chimico che abbatte i polimeri ad alte temperature – tra i 300-400°C - in assenza di ossigeno. La coautrice Bhawna Yadav Lamba afferma che questo processo è tra i metodi di riciclaggio più promettenti e sostenibili, soprattutto rispetto all’incenerimento. “La pirolisi è un processo chimico comunemente usato, i cui vantaggi includono la capacità di produrre elevate quantità di bio-olio, facilmente biodegradabile […] C’è sempre la necessità di combustibili o risorse energetiche alternative per soddisfare le nostre esigenze energetiche. La pirolisi della plastica è uno dei metodi per mitigare la nostra crisi energetica”.

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