Pubblicità: il fenomeno del greenwashing

Dipingere tutto di green, ammantare la comunicazione commerciale di eco-slogan che però non reggono a un vaglio di merito approfondito (qui il concetto di greenwashing) non fa bene né ai consumatori né all’ambiente. Tantomeno fa bene alle imprese che green lo sono davvero e che investono realmente in innovazione sostenibile puntando sul green advertising
La comunicazione d’impresa è andata sviluppandosi parallelamente al crescente interesse per l’ambiente e per le problematiche sociali, scaturito dalla graduale presa di coscienza delle conseguenze di un’industrializzazione in cui i consumi e gli impatti crescono in misura abnorme. Le motivazioni per cui un’organizzazione decide di comunicare informazioni riguardanti il proprio comportamento ambientale ed etico sono sostanzialmente collegate all’esigenza di migliorare la propria immagine. Pertanto, per ottimizzarne l’efficacia, è opportuno calibrare il taglio della comunicazione ambientale sul target al quale ci si intende rivolgere. Ma non basta, è infatti fondamentale prestare la massima attenzione ai contenuti del messaggio. Le conseguenze di un green marketing scorretto possono essere negative per l’intero mercato dei prodotti sostenibili e rispettosi dell’ambiente. L’attuale contesto vede crescere costantemente l’interesse e l’attenzione dei consumatori nei confronti delle tematiche ambientali. Questa accresciuta consapevolezza dei consumatori è destinata ad influenzare sempre più la scelta dei prodotti. Già oggi, come detto, per molte persone tale valutazione è condizionata in buona parte dall’esame critico di alcune caratteristiche dei prodotti: “rispetta i metodi di produzione tradizionali?”, “è inquinante?”, “contribuisce alla tutela dell’ambiente? Va da sé, quindi, che l’attenzione del marketing aziendale si sposti contestualmente verso le tematiche ambientali. Mentre la crescita del green marketing, in ogni caso, è senza dubbio ben studiata e documentata, lo è molto di meno l’aumento del fenomeno del greenwashing, ovverosia il marketing ingannevole teso a fuorviare i consumatori circa le pratiche ambientali di un’azienda o i benefici ambientali di un prodotto o di un servizio. Greenwashing vs green advertising In materia di comunicazione commerciale di prodotti sedicenti sostenibili, la differenza tra “greenwashing” e “green advertising” è sostanzialmente la stessa che intercorre tra bugia e verità. Il greenwashing è, infatti, una pratica attraverso la quale si ammanta la propria pubblicità di claim o frasi fatte che attingono all’immaginario ambientale, senza che le suddette affermazioni trovino una soddisfacente corrispondenza con la realtà. I sette peccati di greenwashing, classificati dalla società di marketing ambientale Terra Choice, sono variegati e oscillano tra la vaghezza e la falsità vera e propria. E allora come difendersi? Dallo scorso anno, in Italia, c’è un’arma in più. Si tratta dell’Articolo 12 - “Tutela dell’ambiente naturale”, del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, un insieme di norme di comportamento cui sono vincolati i mezzi di diffusione, le aziende, le agenzie, i consulenti e tutti i soggetti aderenti. La direttiva impone criteri di trasparenza e standard di correttezza maggiori nell’ambito dei cosiddetti green claim, introducendo il vincolo di verificabilità scientifica delle dichiarazioni. L’Articolo 12 preesistente, “Salute, sicurezza e ambiente”, è stato “scalzato” e rinominato in 12bis - “Sicurezza”, riferendosi ormai unicamente ai prodotti suscettibili di presentare pericoli. “La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”. Il testo della norma, qui riportato integralmente, è la risposta concreta a una richiesta diffusa di cui UPA (Utenti Pubblicità Associati) e la Fondazione Sodalitas si sono fatti portavoce presso l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP). l’Articolo nasce con un duplice intento: da un lato, tutelare i consumatori che desiderano lasciarsi guidare nella scelta dei prodotti da comunicazioni trasparenti e veritiere sul fronte ambientale; dall’altro, per favorire la costruzione di una green brand reputation legittima e affidabile da parte di aziende realmente virtuose, ambientalmente responsabili e pronte a investire in sostenibilità. Il mondo aziendale potrà contare quindi su una norma che, imponendo standard di trasparenza alla comunicazione commerciale, va a premiare le aziende che investono realmente in innovazione “sostenibile”, venendo incontro a una richiesta diffusa. E negli altri Paesi L’attenzione sul greenwashing è aumentata nel Regno Unito dove è stato chiesto al Consorzio dell’Olio di Palma Malese di ritirare l’annuncio apparso sulla BBC e giudicato ingannevole che definiva il prodotto “un regalo dalla natura, un regalo per la vita, che aiuta il pianeta a respirare e genera sostenibilità”. Negli Stati Uniti, la Commissione federale del commercio ha fornito linee guida contro i posizionamenti ambientali falsi e ingannevoli in pubblicità. L’Australia sanziona con multe fino a 1,1 milioni di dollari le aziende che comunicano comportamenti ambientali non corrispondenti alla verità. In Norvegia le case automobilistiche non possono fare pubblicità paragonandosi a temi ambientali e in Francia, l’Agenzia di protezione dei consumatori ha stabilito che le automobili nelle pubblicità devono apparire in normali strade aperte al traffico dove sono usate abitualmente e non in luoghi “green”.

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